Le domande sull’orrore dell’Olocausto

BRESCIAOGGI

Lettere al direttore

Egregio direttore, sabato 20 gennaio, nella Chiesa di Santa Maria del Carmine, il gruppo Klezmorin ha proposto il Viaggio nella Musica Yiddish. Ȓ stato un viaggio nella memoria e nella storia di momenti felici e di tragedie del popolo ebraico attraverso brani religiosi e profani sia in ebraico che in Yiddish, che è la lingua materna delle comunità ebraiche un tempo sparse in innumerevoli shtetlek (villaggi) dell’Europa orientale poi sterminate nel corso della Shoà.
La musica Yiddish nasce nei primi anni del 1800, gli ebrei in esilio vivono in questi poveri villaggi dove ci sono capanne con tetti di paglia e pavimenti in terra battuta, in questo contesto si forma un gruppo di musicanti, sono autodidatti (Klezmorim). Prende questo nome il gruppo che ci ha fatto ascoltare e conoscere i vari brani musicali.
Un professore spiega: nei villaggi i lavori sono umili, il sarto, il falegname, il contadino, dove non manca una piccola Sinagoga per pregare, una stanza dove il Rabbino insegna a bambini di tre quattro anni l’ebraico per cominciare a leggere la Bibbia (Thorà), un piccolo spazio per la memoria, dove Dio non deve entrare perché solo il nome dei propri cari deve essere ricordato, qui ricorda il Museo Jad wa- Shem, il luogo più santo della città di Gerusalemme, si entra in una stanza buia illuminata solo da poca luce, dove vengono ripetuti continuamente i nomi dei bambini morti a Birkhenau, hanno bruciato nei camini di Birkhenau 1.500.000 bambini.
Il professore racconta un fatto: un uomo si trovava nella Sinagoga e sentiva cantare le lodi a Dio in ebraico, anche lui voleva cantare, ma sapeva solo le lettere dell’alfabeto, esce dalla Singoga s’inginocchia, alza le mani verso il cielo e intona un inno solo con l’alfabeto. Questo ha un significato profondo, anche con poche lettere si può sempre rivolgere a Dio una preghiera.
Ogni brano viene spiegato, effettivamente ci immergiamo in una atmosfera poetica e dolorosa, una lettrice narra piccole poesie colme di significati profondi, come il ragazzo quattordicenne che scrive alla madre, lui rinchiuso nel lager descrive il duro lavoro che svolge, il suo cuore colmo di tristezza, più non potrà vedere il volto della madre perché vicina ormai è la morte. Anche il bambino che vuol lasciare la sua mamma, vorrebbe avere due piccole ali per volare sull’albero e farsi cullare dal vento e quando d’inverno l’albero è spoglio lo vorrebbe scaldare. Narra del vitellino che il contadino tiene sul carretto per portarlo al mercato, e il povero vitellino chiede il perché non ha le ali, per volare nel cielo azzurro. Questi frammenti di pace contadina li dipinge Chagal, quando appunto si vedono volare sui tetti vitellini e caprette.
Sono semplici racconti colmi di infinita dolcezza e melanconia. Ogni brano viene cantato e la musica l’accompagna con infinita bravura. Il gruppo Klezmorim è formato da cantanti e musicisti bresciani. Per l’interpretazione così commovente così sofferta, avrei giurato fossero tutti veri ebrei.
Poi viene il momento della memoria la Shoha, quando Wiesel un superstite di Birkhenau «non dimenticherà mai» ciò che vede: le lunghe file di ebrei che scendono dal treno e s’incamminano verso l’ufficiale che li destinerà con la mano: l’anziano da quella parte, i bambini laggiù verso il parco delle betulle dove il fumo dei camini si frantuma nel filo spinato verso il cielo, le madri con i bimbi in braccio di là verso i forni crematori, i più giovani, la forza lavoro. Gli anziani capiscono la loro fine e intonano il Salmo della Liberazione, un canto che gli ebrei cantano il giorno di Pasqua. Il Salmo viene cantato da un ragazzo in un silenzioso silenzio colmo di infinita struggente tristezza.
Vorrei ricordare una testimonianza di Wiesel: racconta che una sera al ritorno del lavoro, i prigionieri trovano innalzate tre forche, devono essere impiccati tre prigionieri, perché sono state trovate nel campo delle armi. Sono impiccati due uomini e un bambino che sapeva e aveva taciuto nonostante le torture. Un bambino chiamato «pipel» termine Yiddish che vuol dire ragazzino. I prigionieri devono assistere all’esecuzione. I due adulti muoiono subito, mentre il bambino è così leggero che, appeso agonizza più di mezz’ora.
«Dietro di me», scrive Wiesel, «udii il solito uomo domandare: dov’è Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Eccolo appeso lì, a quella forca»
Un pensatore cristiano è indotto a scegliere fra tanti episodi questo episodio perché è il più vicino all’idea della croce, ma questo è solo un bambino al quale hanno rapito la vita e che non resuscita dopo tre giorni

Elie Wiesel scrive «per il credente nessuna domanda può causare tanta angoscia, tanta ansietà, e perché non dirlo? tanta disperazione. Dio e Birkenau non vanno insieme. Come si può riconciliare il Creatore con la distruzione mediante il fuoco per oltre un milione di bambini ebrei?» Non ci sono risposte, la domanda sul male ha assunto molte voci, secondo il credere e non credere: c’è chi come Elie Wiesel si chiede dov’era Dio, e chi come Primo Levi, dov’era l’uomo!
Alba Pioletti
Brescia

Vedi articolo